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Ed Kemper

Ultimo Aggiornamento: 29/05/2012 22:41
03/02/2008 22:32
 
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Il gigante decapitatore
Modus operandi: omicidio mediante strangolamento o arma da fuoco, quindi decapitazione e depezzamento, episodi di cannibalismo, violenza sessuale sui cadaveri de-personalizzati.


L’infanzia. «In cantina!»
Edmund Emil Kemper III nasce il 18 dicembre 1948, a Burbank, California. Ha due sorelle, entrambe più giovani di lui, e genitori separati dopo anni di litigi continui. La sua è un’infanzia fatta di rifiuti e umiliazioni: la madre, Clarnell, lo odia perché assomiglia al suo ex marito, e il suo aspetto fisico diventa presto motivo d’emarginazione familiare e sociale. All’età di dieci anni Ed è un bambino eccezionalmente alto e robusto e sua madre, che si sospetta soffrisse di una forte nevrosi, prende l’abitudine di chiuderlo in cantina per paura che molesti sua sorella Susan. Venire segregato come un prigioniero nel seminterrato lo fa sentire colpevole e pericoloso, senza che in realtà abbia fatto qualcosa di male. Terrorizzato dalle lunghe notti trascorse in cantina, Ed comincia a nutrire un profondo risentimento verso le due donne. Quando non è chiuso a chiave, entra nella camera della madre e la osserva dormire, con un martello in mano, fantasticando di schiacciarle il cranio.
A scuola la situazione non è migliore: i bambini più piccoli lo evitano per paura, i più grandi perché lo ritengono strano. La timidezza non lo aiuta, e il rifiuto familiare e l’assenza di una figura maschile positiva in cui identificarsi acuiscono il suo disagio. Le sue fantasie di morte si trasferiscono sul piano pratico: in aula mostra un morboso interesse per l’anatomia e la dissezione delle rane diviene la sua applicazione preferita.
Timido, introverso, complessato per le sue abnormi dimensioni, isolato dai coetanei ed emarginato a casa, Ed si sente trattato come un mostro. In lui prende forma un desiderio di rivalsa, di “rendere la pariglia”, come dirà lui stesso in seguito a John Douglas, l’agente dell’FBI che lo interrogherà in carcere.
Frustrato dalle continue e ingiustificate punizioni, comincia a sfogarsi sugli animali, spostando la colpa su di loro piuttosto che sulla crudità del proprio gesto. Si guadagna presto il soprannome di “Doc”, uccidendo tutti i gatti che gli capitano a tiro per poi sezionarli.
«Per capire come erano fatti e come funzionavano», spiegherà.
Allo smembramento dei gatti di casa fa seguire il ricorrente espletamento di un perverso rituale di morte con sua sorella Susan. Pretende di essere imbavagliato e legato a una sedia, come in una camera a gas: Susan deve tirare un’immaginaria leva, e lui agonizza per lungo tempo prima di “morire”.
Quando la madre, che intanto cambia mariti e compagni allo stesso ritmo con cui cambia l'auto, si rende conto di questo “strano” comportamento, decide di non voler più quel figlio mostruoso tra i piedi e lo affida all’ex marito. Ed però scappa e la obbliga a rivolgersi a un'assistente sociale, che lo giudica “sottoposto a enorme stress nonché traumi e umiliazioni ripetute” e che lo manda a sua volta a vivere con i nonni.
Che effetto fa sparare alla nonna?
In casa dei nonni, Ed vive solo e infelice, fino a un agosto del 1963.
Ha quattordici anni quando spara alla nonna, Maude, con un fucile calibro .22, prima di pugnalarla ripetutamente alla schiena con un coltello da cucina. Lei l’aveva obbligato a restare in casa ad aiutarla, mentre lui avrebbe voluto raggiungere nei campi il nonno, al quale era maggiormente legato.
La cosa non gli era proprio andata giù.
Subito dopo l’omicidio, però, Ed si rende conto che il nonno “non riterrà accettabile” il suo comportamento, dunque lo attende e gli spara, lasciando poi il cadavere in cortile.
Alle domande dei poliziotti, che gli chiederanno il perché di quel gesto, risponderà semplicemente: «Mi ero sempre chiesto che effetto avrebbe fatto sparare alla nonna.»

Il soggiorno ad Atascatero.
A seguito della mancanza di ogni motivazione al suo gesto, Ed viene ritenuto dagli psichiatri una “personalità disturbata del tipo passivo-aggressivo” e viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Stato di Atascatero, dove resterà fino al 1969.
Durante la sua permanenza ad Atascatero, il giovane Ed si distingue per la sua disponibilità. È volenteroso e non pianta grane, e inoltre prende a lavorare assieme agli stessi dottori che lo esaminano, i quali dunque vedono in lui una forte volontà positiva. In realtà, l’atteggiamento di Ed è sempre manipolativo e interessato. Studia il gergo dei medici, cerca di capire cosa deve fare per essere dimesso. Il suo quoziente intellettivo eccezionalmente alto (centoquarantacinque) gli permette in breve tempo di assimilare le informazioni sufficienti per mettere in scena la propria “guarigione”. Intanto però, ha contatti continui con gli altri assassini, ascolta i loro racconti e da essi prende spunto per nuove fantasie, che iniziano a prevedere, accanto all’elemento morte/sangue/vendetta, anche quello sessuale. Ed raccoglie meticolosamente informazioni, annota su un taccuino le proprie impressioni sui dettagliati resoconti che gli altri detenuti gli fanno, analizza in maniera particolareggiata il loro comportamento andando alla ricerca di errori. Dall’alto della propria intelligenza, considera gli altri omicidi dei “principianti senza metodo”, viviseziona le loro storie evidenziando a se stesso quanti e quali sbagli abbiano compiuto, come siano stati stupidi a lasciarsi alle spalle tracce e testimoni. Pur non avendo idea di quanto lunga sarà la sua permanenza nell’ospedale, Ed ritiene estremamente importanti le informazioni che raccoglie: è sicuro che prima o poi tutto ciò che sta mettendo da parte gli tornerà utile. E lavora, alle spalle dei dottori ignari e compiaciuti dei suoi fasulli miglioramenti. A loro è dato di conoscere solo il “timido e volenteroso” Ed!
È il 1969 quando i suoi sforzi vengono finalmente premiati: nonostante il parere contrario di alcuni psichiatri, viene dimesso.
Comincia così la sua striscia di crimini a sfondo sessuale.
La carriera omicida – la preparazione.
Benché le autorità consiglino che Ed non venga mai rimandato a casa dalla madre, ciò è proprio quello che fa il centro d’accoglienza di giovani della regione, tre mesi dopo. Clarnell in questo periodo, dopo il fallimento del suo terzo matrimonio, lavora come segretaria presso l’Università della California, aperta a Santa Cruz di recente, e si può in qualche modo dire che sarà proprio lei ad avviare la carriera di serial killer del figlio, fornendogli il pass d’accesso ai locali universitari in cui Ed troverà le sue vittime.
Al momento della dimissione da Atascatero, Ed ha ventun anni, pesa circa centocinquanta chili, e non ha idea di cosa farà nella vita. Per due anni è occupato nei lavori più strani e viaggia in lungo e in largo per la California raccogliendo giovani autostoppiste.
È un periodo fremente per Santa Cruz e dintorni, le belle ragazze pullulano, sembrano quasi attirate nella zona da una calamita. Ed, che durante l’adolescenza ha perso molte occasioni, inizia a pensare che possa essere giunto il momento del suo riscatto. Fa domanda per essere assunto nella polizia stradale, stranamente aiutato per una volta dalla madre, che si adopera presso conoscenze affinché l’omicidio dei nonni non figuri nella sua fedina penale. I limiti di altezza e peso, però, lo tagliano fuori dalla selezione e deve ripiegare su un impiego nel Dipartimento Autostrade. Per consolarsi della mancata assunzione nella polizia, compra una moto simile a quella in dotazione ai poliziotti veri e inizia a frequentare i locali che questi ultimi preferiscono. In particolare, in uno di essi, il “Jury Room”, diviene di casa e si guadagna l’affettuoso nomignolo di “Big Ed”.
È interessante notare come il desiderio di lavorare con la polizia sarà poi uno dei dettagli che a John Douglas e al suo collega Robert Ressler capiterà più spesso di riscontrare nel corso dei loro studi. La motivazione fondamentale dei serial killer a carattere sessuale è il desiderio di dominio, manipolazione e controllo. E il poliziotto incarna il potere e l’autorevolezza. Al poliziotto è concesso di fare del male ai “cattivi”. Per Ed, come per molti altri assassini seriali oggetto di violenze fisiche e psicologiche da bambini, un lavoro nella polizia costituirebbe un affrancamento dalla sua condizione di “vittima”, di perdente. È proprio questa molla inconscia che lo spinge a vivere a stretto contatto con le forze dell’ordine, vuole sentirsi partecipe della loro vita. Vuole essere “uno di loro”.
Intanto la California sta vivendo il fenomeno “hippies”. Vestiti sgargianti e capelli lunghi in ogni angolo, ragazze affamate di vita “on the road” e bisognose d’esser scarrozzate su e giù per lo Stato. Tutto ciò costituisce per Ed quasi un invito all’assassinio, invito che trova crescenti motivazioni nella situazione familiare ancora problematica. Il lavoro presso il Dipartimento Autostrade gli ha permesso di andare a vivere in un piccolo appartamento con un amico, ma stando a quanto lui stesso riferirà in seguito, sua madre continua a perseguitarlo e a umiliarlo in continuazione. Clarnell gode di una grossa popolarità all’università, è considerata da tutti una persona sensibile e affettuosa, e tuttavia tratta il figlio come un mostro. «Non riuscirai mai a portar fuori una di queste mie ragazze» è il messaggio che gli comunica quasi quotidianamente. «Sono tutte troppo, per te.»
In Ed scatta qualcosa, deve dimostrarle ciò che è in grado di fare. Comincia allora, in questo periodo, a fare delle “prove”, sempre più elaborate, con l’intenzione di cominciare a uccidere quanto prima. Un incidente con la moto gli dà nuove possibilità. Coi soldi dell’assicurazione, acquista una macchina simile a quelle usate dalla polizia e la equipaggia perfino di radioricevitore VHF e antenna.
A bordo della sua nuova auto Ed prende l’abitudine di andare avanti e indietro sulle Statali della zona. Quasi quotidianamente da passaggi ad autostoppisti di entrambi i sessi, portandoli dove vogliono e contemporaneamente studiando a fondo la regione e le opportunità che gli può offrire. Durante questi viaggi, prende appunti mentali sui luoghi più sicuri, quelli verso cui potrebbe compiere deviazioni e andare a uccidere una vittima. In altre occasioni, si piazza lungo la strada e osserva le abitudini delle volanti e i tempi che impiegano per i loro giri. Non dà niente per scontato, pianifica meticolosamente ogni minimo dettaglio, consapevole ed eccitato dalla prospettiva che presto sarà pronto per mettere in pratica ciò che finora ha vissuto solo nelle proprie fantasie. Affina pure il modo di porsi nei confronti delle sue potenziali vittime. Come racconterà a John Douglas, Ed diviene un maestro in quella che per lui è un’assoluta priorità: carpire la fiducia delle giovani autostoppiste. Quando carica a bordo una ragazza, si comporta sempre in modo estremamente calcolato: le chiede dove sia diretta, poi controlla l’ora, come a volersi accertare d’avere abbastanza tempo per condurla a destinazione. Davanti a un atteggiamento simile e al suo aspetto pulito ed efficiente, le ragazze credevano di trovarsi di fronte a un uomo serio e impegnato, con delle precise priorità, e accantonavano ogni possibile dubbio o timore.
Nonostante la crescente sicurezza con cui riesce a perseguire il suo obiettivo di conquistare la fiducia della vittima, però, Ed non si sente ancora pronto. Equipaggia la sua auto con una serie di armi e attrezzi che gli serviranno per commettere materialmente gli omicidi, e intanto continua a perfezionare le sue fantasie.
È opinione ormai diffusa che per un omicida seriale il fattore più importante sia proprio la “fantasia”, intesa nella più larga accezione del termine. In Ed le fantasie sono state precoci e sono cresciute assieme a lui, acquisendo via via nuovi e più stimolanti elementi.
Il passaggio dalla fantasia alla realtà, come spesso accade, avviene in seguito a quello che è solitamente definito “elemento scatenante”. Una violenta discussione con la madre fa precipitare la sua situazione emotiva: Ed esce di casa risoluto a uccidere e rendere finalmente soddisfacente un’esistenza finora inadeguata. «La prossima donna con cui avrò a che fare ci lascerà la pelle!» pensa, sbattendo la porta.
La carriera omicida – l’attuazione.
È il 7 maggio del 1972 che ha inizio la sua effettiva carriera di serial killer.
Carica in auto due autostoppiste di San Francisco, Mary Ann Pesce e Anita Duchessa, le porta in una zona isolata e le pugnala entrambe a morte, incontrando più difficoltà di quanto avesse immaginato. Porta poi i cadaveri delle giovani donne a casa della madre e li fotografa con una Polaroid, quindi ne seziona uno e taglia a entrambi la testa. Si libera dei corpi chiudendoli in sacchi di plastica che seppellisce sulle montagne intorno a Santa Cruz, mentre tiene con sé le teste per qualche giorno, prima di gettarle in un burrone.
Passano quattro mesi.
Il 14 settembre dà un passaggio a una ballerina quindicenne, Aiko Koo, che stanca d’aspettare l’autobus aveva pensato di fare l’autostop. La porta in un luogo isolato e agisce con maggiore accuratezza. La strangola e ne violenta il cadavere, quindi lo porta a casa per sezionarlo. Il giorno seguente, la testa della ragazza si trova nel bagagliaio della sua auto, mentre lui è a colloquio con gli psichiatri che periodicamente controllano il suo stato mentale. Ed passa l’esame senza problemi: convince gli psichiatri di non costituire più un pericolo né per gli altri né per se stesso e dunque viene inoltrata al tribunale una richiesta di archiviazione della sua pratica. È questo indubbiamente un grosso successo per lui, un evento che dimostra la sua superiorità nei confronti del sistema, superiorità confermata pure dal fatto che i suoi precedenti omicidi finora sono rimasti impuniti.
È da dire, a riguardo, che in questo periodo Santa Cruz vanta il poco invidiabile titolo di “capitale mondiale dei serial killer” e che la polizia ha per le mani un numero incredibile di vittime senza movente. Accanto a Kemper, almeno altri due assassini seriali stanno terrorizzando la città e i suoi dintorni. Herbert Mullin, uno schizofrenico paranoide bello e intelligente, uccide indiscriminatamente uomini e donne, per ordine di presunte “voci” che lo spingono a contribuire alla salvezza dell’ambiente. E nei boschi circostanti la città, il ventiquattrenne meccanico John Linley Frazier massacra una famiglia di sei persone e dà fuoco alla loro abitazione, come monito ai distruttori della natura. Sul biglietto che lascia sul parabrezza della Rolls-Royce di una delle vittime, scrive: «Il materialismo deve morire o l’umanità fermarsi.»
D’altro canto, la polizia non si preoccupa più di tanto delle denunce di scomparse di ragazze da parte dei genitori, visto il continuo e frenetico via vai di “figli dei fiori”, vagabondi, persone di passaggio e viaggiatori d’ogni genere. Capita spesso che le presunte “scomparse” si ripresentino a casa già il giorno dopo, semmai con un nuovo fidanzato. Ed, inoltre, è un tipo insospettabile, secondo la logica investigativa degli anni settanta: è un giovane timido e disponibile, che di sicuro non può avere niente a che fare con certi atroci omicidi.
È sulla base di questa complessa situazione, dunque, che Kemper può continuare indisturbato a mietere vittime.
Contravvenendo alla prima regola sulla libertà vigilata, Ed, che intanto ha perso il lavoro ed è tornato a vivere dalla madre, acquista un’arma da fuoco.
Il 9 gennaio 1973 rapisce Cindy Schall, un’altra studentessa. Tenendola sotto la minaccia di un fucile, la costringe a entrare nel bagagliaio della sua auto, quindi le spara. Ormai il suo “rituale” è ben consolidato: porta a casa il cadavere, lo violenta e lo seziona nella vasca da bagno. Sparpaglia poi i resti chiusi in vari sacchetti sulla scogliera di Carmel, ma riserva un trattamento particolare alla testa. La seppellisce nel cortile sul retro, col viso rivolto verso l’alto, in direzione della camera da letto della madre. Clarnell aveva sempre voluto che la gente “alzasse gli occhi” per guardarla, non la stava forse accontentando?
I resti della giovane vittima vengono rinvenuti il giorno successivo, a Santa Cruz il panico dilaga. La polizia invita le ragazze a non accettare passaggi da sconosciuti, ma questo non basta a fermare la striscia di sangue che Ed lascia dietro di sé. La macchina che guida porta in bella mostra un adesivo che testimonia la sua appartenenza al mondo universitario: come si può dubitare di uno “dell’ambiente”?
E così, meno di un mese dopo, Kemper uccide ancora.
Rosalind Thorpe e Alice Liu ricevono lo stesso trattamento che ha riservato alle altre ragazze: spara loro alla tempia, poi le porta a casa. Attende che sua madre ritorni dall’università, prima di decapitarle all’interno del bagagliaio stesso. Non soddisfatto, trasporta in casa il corpo di Alice e lo violenta sul pavimento, poi, tornando alla macchia, le taglia le mani, in preda a un’ispirazione improvvisa. Seppellisce i corpi mutilati nei pressi di San Francisco, a Eden Canyon, dove vengono ritrovati una settimana dopo.
Si avvicina la primavera e ormai lui stesso è allarmato dalla rapida escalation della sua natura omicida. A un certo punto prende in seria considerazione l’idea di ammazzare tutti gli abitanti dell’isolato, come “dimostrazione alle autorità”, ma poi comprende qual è in realtà il suo vero desiderio, ciò che ha sempre voluto fare.
Uccidere sua madre.
Durante il fine settimana di Pasqua, attende che lei vada a letto, quindi, alle 5 e 15 del mattino, la uccide a martellate. La decapita e la violenta. Per ultimo, le taglia la laringe e cerca di gettarla nel tritarifiuti.
Agli agenti dirà: «Mi sembrava la cosa giusta, per farle pagare tutte le volte che se l’era presa con me, urlando e sbraitando.»
Quando però preme il pulsante per l’accensione, il tritarifiuti s’inceppa e gli “risputa” l’organo. «Perfino da morta, continuava a tormentarmi. Non riuscivo a farla tacere!», gemerà. Infuriato dall’evento, da lui stesso ritenuto “macabramente appropriato”, Ed chiama un’amica di sua madre, Sally Hallett, e la invita a casa per una “festa a sorpresa” in onore di Clarnell. Quando la donna arriva, la strangola e le taglia la testa. Ne adagia il cadavere decapitato sul proprio letto, e va a dormire in quello della madre.
La domenica di Pasqua, si mette in macchina e comincia a guidare senza meta verso est. Con la radio accesa, si aspetta di sentire da un momento all’altro d’essere diventato una celebrità nazionale. Il tempo passa, però, e la radio non dice nulla.
Alla fine, esausto e deluso dalla sua mancata consacrazione alla fama, si ferma nei pressi di Pueblo, in Colorado, e chiama da una cabina telefonica il Dipartimento di polizia di Santa Cruz.

La cattura.
Ai suoi “amici” poliziotti, Ed confessa tutti i propri delitti. Deve però faticare parecchio per convincerli di essere davvero lui l’assassino di quelle ragazze di cui discorrevano insieme nei bar. Poteva il buon “Big Ed”, il ragazzo che esprimeva sincero ribrezzo per le efferate modalità degli omicidi, essere un assassino? Sembrava impossibile.
Eppure Ed fornisce delle prove inoppugnabili, informazioni che solo l’omicida poteva avere. La polizia di Santa Cruz non può far altro che andarlo ad arrestare, mentre lui attende pazientemente il loro arrivo all’interno della propria auto.
È così che ha quindi fine la sua carriera criminale, cominciata con l’omicidio dei nonni e terminata con quello della madre, da sempre desiderato e finalmente messo in atto.
La prigionia, i colloqui, la “fama”.
Al processo, Ed si mostra compiaciuto di essere divenuto finalmente importante, degno dell’attenzione dell’intera nazione. La sua genialità è sotto gli occhi di tutti, ed è evidente, a suo modo di vedere, che non l’avrebbero mai catturato se lui stesso non avesse deciso di costituirsi. Quando gli viene chiesto quale punizione ritenga adeguata per le proprie azioni, risponde senza incertezza: «Morte per tortura.» Invece, viene condannato per otto omicidi di primo grado a un ergastolo per ognuno di essi e viene rinchiuso presso una struttura psichiatrica di Vacaville, una cittadina a metà strada tra San Francisco e Sacramento.
È qui che riceve le visite di John Douglas e Robert Ressler.
In questo periodo, i due esperti di “criminal profiling” dell’FBI stanno iniziando una serie di incontri con assassini seriali ancora in vita, per interrogarli e imparare a comprenderne il comportamento, “penetrarne il punto di vista”.
Edmund Kemper è il primo della lista e acconsente subito a parlare.
Durante il colloquio, come Douglas ammetterà, i due agenti hanno spesso la sensazione di trovarsi di fronte a un individuo estremamente brillante, anche più di loro. Ed, dal suo canto, ha avuto il tempo di riflettere con attenzione sulla propria vita, e tenta di capire quanto essi sappiano di lui. Quando si rende conto di non poterli ingannare, decide semplicemente di essere sincero. In maniera fredda e analitica, ripercorre assieme a loro la sua intera esistenza, mostrando segni di commozione solo quando parla del trattamento a cui era stato sottoposto dalla madre. Racconta con dovizia di particolari ognuno dei suoi omicidi, parla di come abbia mangiato parti delle gambe di almeno due sue vittime, spiega come pure da bambino fosse ossessionato dalla decapitazione: tagliava la testa alle Barbie della sorella.
Alla stessa sorella una volta aveva confessato d’essersi innamorato della propria maestra d’inglese. Quando lei, prendendolo in giro, gli aveva domandato «Perché non provi a baciarla?» lui aveva risposto tranquillamente: «Per baciarla, dovrei prima ucciderla.»
Kemper rivela tutto con ordine e metodo, prevenendo le domande e non lasciandosi interrompere. Prosegue il suo racconto riferendo con soddisfazione di come fosse sfuggito varie volte a imprevisti insidiosi.
In un episodio, dice, era stato fermato da un agente a causa di un fanalino rotto, mentre teneva all’interno del bagagliaio due cadaveri, ma se l’era cavata egregiamente, con una semplice ammonizione.
Il rischio di venire scoperto lo aveva eccitato ancora di più e se il poliziotto avesse preteso di guardare nel bagagliaio l’avrebbe ucciso senza esitazione.
In un’altra occasione, era riuscito a passare sotto il naso di un addetto alla sorveglianza dell’università con due ragazze in fin di vita avvolte in un paio di coperte. «Sono ubriache e le sto riportando a casa» gli aveva detto, con un certo imbarazzo. Era vero, ma nel caso fossero state due vittime, l’avrebbe fatta franca.
I suoi incontri con gli agenti si susseguono con regolarità, e lui non lesina dettagli, anzi, più parla, più si compiace della propria abilità.
Con orgoglio rivela come la sua attenzione fosse sempre totale: un giorno aveva fatto salire in auto una giovane donna con un bambino piccolo, con l’intenzione di ammazzarli entrambi, ma si era accorto, guardando nel retrovisore, che il compagno della donna si era appuntato il suo numero di targa. Aveva dunque accompagnato la ragazza e il figlio a destinazione e aveva saggiamente rimandato l’appuntamento con un nuovo omicidio.
A Douglas e Ressler confessa con contrizione pure il suo problematico rapporto con l’altro sesso. Alla domanda: «Cosa pensi quando vedi una bella ragazza che cammina per la strada?», risponde con estrema naturalezza: «Una parte di me vorrebbe parlarle, chiederle un appuntamento. Un’altra parte di me invece pensa “Chissà come starebbe la sua testa in cima a un palo!”»
In definitiva, afferma, non credeva di poter piacere alle ragazze, si sentiva inadeguato e inevitabilmente destinato a un rifiuto. Era soltanto nelle fantasie che poteva possederle, e possederle, in fin dei conti, significava appropriarsi della loro vita. Pure al processo aveva detto: «Vive, erano lontane, distaccate. Io cercavo di stabilire un rapporto con loro. Quando le uccidevo, pensavo soltanto che sarebbero diventate mie.»
Ai due agenti spiegherà poi con più chiarezza: «Decapitarle era l'unico modo che avevo per amarle. Solamente dopo averle de-personalizzate riuscivo a concepirle come un piacere. Per quanto riguarda il cibarmi dei corpi e per quanto può sembrare freddo dirlo così, era l'unico modo che avevo per rendere quelle ragazze mie per sempre. Penso che sia stato così anche per mia madre, in un certo senso. Ovviamente era un'attività che mi dava piacere anche il sezionare, la decapitazione in particolare era piacevole, il suono POP che ha la testa quando si stacca dal corpo, quello mi faceva impazzire...»
Parole raccapriccianti le sue, contrapposte ad attimi di lucido dispiacere.
Un giorno, mentre è a colloquio con Ressler, gli fa notare come siano soli nella cella. «Non c’è nessuno, se volessi potrei stritolarti con una mano sola.» L’agente, spaventato, la mette sullo scherzo. A fine intervista Ed gli dirà con amarezza: «Lo sai che avrei potuto farti del male, a volte ho dei momenti in cui non riesco a controllarmi. Avete fatto bene a rinchiudermi, non lasciatemi uscire mai più.»

La fine.
Oggi Kemper è un detenuto modello.
La sua storia dunque si conclude senza colpi di scena, ma piuttosto con un triste interrogativo. Cosa sarebbe accaduto se Ed fosse nato in una famiglia diversa? Avrebbe agito come ha fatto, se avesse conosciuto l’amore della madre, invece che la violenza e l’umiliazione?
Purtroppo, non ci è dato di saperlo, possiamo soltanto inorridire pensando ai suoi efferati delitti.
John Douglas, però, ha sempre raccomandato ai suoi collaboratori: «Se vogliamo capire l’artista, guardiamone l’opera.»
E una cosa è certa: l’opera di Kemper è rossa di sangue, ma nera di dolore.

preso da:
latelanera.com


[Modificato da l'esecutore 03/02/2008 22:34]
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Sono Alessio Valsecchi, webmaster di LaTelaNera.com, portale da cui è stato tratto questo testo.

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